"L'immagine ai confini del visibile" di Emma Lavigne
È un dato di fatto che l’essenza stessa dell’icona traspare nel passaggio all’astrazione operato da Kandinskij e Malevič, che sperimentano spazi trasfigurati proprio dalla presenza di icone, che si tratti di chiese, cappelle o isbe dai muri dipinti.
Direttrice generale della Pinault Collection e curatrice della mostra
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È un dato di fatto che l’essenza stessa dell’icona traspare nel passaggio all’astrazione operato da Kandinskij e Malevič, che sperimentano spazi trasfigurati proprio dalla presenza di icone, che si tratti di chiese, cappelle o isbe dai muri dipinti come quelle che Kandinskij scopre nel 1889 durante il suo viaggio nella provincia di Vologda. L’immersione nel colore associato alla luminosità delle icone, che si ammantano di rosso alla luce delle candele nell’angolo orientale e sacro delle case, è una fase decisiva nella sua ricerca di un invisibile che nel 1912, in Lo spirituale nell’arte, definirà appunto “spirituale”. In occasione dell’Ultima mostra futurista 0,10 a Pietrogrado (oggi San Pietroburgo) nel 1915, Malevič traspone nello spazio quel bell’angolo rosso in cui sono disposte le icone, per farne lo scrigno del Quadrato nero su fondo bianco da lui considerato l’icona del nostro tempo. Ispirato tanto dai pittori di icone che non utilizzano alcun colore o forma fedeli alla realtà, quanto dalla poesia sonora e ritmica di Chlebnikov, Malevič inventa elementi plastici autonomi che si affrancano dal mondo visibile e dalla mimésis. Nel suo manifesto Il suprematismo o il mondo senza oggetto (1919–1922), aspira a esplorare le modalità di esistenza del mondo al di là dal visibile. Come ha analizzato Bruno Duborgel in Malévitch, la question de l’icône (2), il suo obiettivo è rendere sensibile la relazione tra il visibile e l’invisibile, rivelare la natura dell’immagine non solo nella sua visibilità, ma soprattutto nel suo legame con l’invisibile.
La nascita dell’astrazione si radica in quell’aspirazione alla trascendenza nata dalla contemplazione delle icone, più idonee rispetto alla dinamica dello spazio illusionistico nato dalla prospettiva ad aprire le porte della percezione del mondo nelle sue dimensioni inafferrabili.
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Nell’epoca della proliferazione delle immagini, alcune opere generano ambienti sonori, cappelle immateriali che coinvolgono l’ascolto più profondo e rendono percepibili altre immagini, sensazioni e affetti. Nel torrino di Punta della Dogana, rivestito di specchi e di pellicole che diffrangono la luce, la polifonia composta da Kimsooja amplifica l’esperienza spaziale che aspira alla trascendenza. La musica si impadronisce dei corpi nell’opera di Camille Norment in cui i visitatori, seduti su panche di legno, sono attraversati dalle vibrazioni delle onde sonore che, attraverso i gemiti dei cori gospel afroamericani, producono un’esperienza sensoriale capace di risvegliare la memoria delle comunità nere.
Nell’opera di Dineo Seshee Bopape, Mothabeng (2022, ill. p. 152), i suoni provenienti da una cava di pietra in Toscana fanno vibrare la cappella di argilla attraversata dalla luce e permettono di riconciliare con la terra i corpi offesi, radicandoli nuovamente in una memoria geologica primordiale. Girato tra le macerie della chiesa di Saint Laurence nel quartiere afroamericano di South Side a Chicago, Gone are the Days of Shelter and Martyr di Theaster Gates (2014, ill. p. 100) ci fa percepire la scomparsa dei luoghi di comunione, il lutto (mourning) senza fine di una comunità. La musica permette all’artista di trasformare la violenza della situazione in un’esperienza del sublime. Il canto gospel, carico di emozioni, porta la speranza di una rinascita.
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Nella Quinta a del Sordo di Philippe Parreno (2021, ill. pp. 96-99), il suono e la luce rivelano, riportandole in vita, le quattordici pitture nere realizzate da Goya nella sua casa vicino a Madrid tra il 1819 e il 1823. In contrasto con la brillantezza mistica dei cicli di raffigurazioni religiose che aveva eseguito per i re e per la Chiesa durante la sua carriera, l’artista crea, direttamente sulle pareti, dipinti a olio in cui predomina il nero, sfumato di ocra e di terra. Ogni traccia di sacro sembra essere definitivamente scomparsa da questa Via Crucis, questo testamento pittorico ossessionato dai fantasmi del suo mondo interiore e dalla sua visione politica pessimista che critica l’oscurantismo e l’Inquisizione.
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Marie-José Mondzain sottolinea come “ogni grande arte è kenotica” (3), in riferimento alla nozione di kenosi presente nell’arte dell’icona e che definisce il vuoto, la scomparsa del divino. Le figure sacre hanno lasciato il posto alle streghe, al mostro saturnino, alle scene di sabba e al cane randagio, come in una Cappella Sistina laica abitata dalla consapevolezza della morte. La telecamera, con la sua definizione di 500.000 immagini al secondo, entra come un endoscopio nel corpo stesso della pittura per sondarne i misteri: rende visibile ogni pennellata, gli spazi interstiziali tra le opere o il loro rapporto connaturato con la casa che le ha generate, riproducendo anche il paesaggio sonoro immaginario di questo cenotafio attraverso la creazione in 3D di un’architettura acustica dello spazio.
Il crepitio del fuoco nel focolare, il soffio del vento tra gli alberi, il suono ovattato delle campane e il ritmo della respirazione ci immergono in un’intensa vicinanza, un patto con il pittore, una comunione che abolisce il tempo.
Alla fiamma della candela che fa fluttuare la polvere, Philippe Parreno ci ricorda come questo ciclo alchemico apra le porte della sensibilità moderna e la coscienza di un mondo progressivamente abbandonato dagli dei, ma nel quale, sulla superficie dello specchio cupo che ci viene teso, il chiarore delle immagini passate e di quelle in divenire continua ad avvicinarsi il più possibile alle energie plastiche dell’invisibile.
Emma Lavigne
Estratti del catalogo della mostra "Icônes"